INFO
Testo di presentazione: Mia Ceran
Testo critico: Luisa Grigoletto
Curatrice e organizzazione: Michele von Büren
info +39 335 1633518
… osservando le sue fotografie… ho rivissuto sensazioni che mi sembrava di aver provato, e non mi è più chiaro se quello dove mi sembra di essere già stata sia un luogo fisico o quello emotivo; perché Sofia Podestà li ha catturati entrambi.
Mia Ceran
Von Buren Contemporary è lieta di presentare Kairos, la mostra personale della giovane fotografa italiana Sofia Podestà.
Il lavoro di Podestà (Roma, 1991), indaga principalmente la relazione dell’uomo con il paesaggio e spesso si concentra su scenari grandiosi, dove la natura regna in tutta la sua maestosità. Con Kairos, invece, il registro cambia: si tratta di una dimensione più delicata, quasi intimista, seppure le immagini appartengano a lavori precedenti, da cui sono state estrapolate. Ed è proprio nel lavoro di rilettura del proprio archivio che nasce questa nuova sequenza, che inanella 12 immagini, scattate tra 2016 e 2021, che spaziano tra la Marmolada e Cortina, tra l’Islanda, il Terminillo, e Monte Livata.
Alberi spogli, come intirizziti dal ghiaccio, boschi scuri e intricati, ricoperti da un manto di foglie cadute e dalla neve, coltri di foschia che accarezzano le rocce e celano le cime degli abeti, in un gioco a nascondino dove siamo lasciati a chiederci se la nebbia si stia alzando o stia calando, e a cercare di rispondere alla domanda di dove vada il vento quando non soffia.
Podestà ci mostra una geografia delle piccole cose, dove la semplicità di un ramo caduto, in bilico su uno specchio d’acqua, si accompagna ad un accenno malinconico. Qui e là si intravedono sparute tracce della presenza umana, che la natura lentamente ricopre e cela: è solo una questione di tempo, è l’ordine del cosmo, che procede incurante degli affari umani. Nella calma imposta da forze maggiori, come in un bosco avvolto da un fitto manto di nebbia, Podestà ritorna sui suoi passi per trovare nuovi percorsi incentrati su contrasti soffusi, nati dall’accostamento di immagini originariamente concepite per ambiti diversi, e ci mostra piccole schegge di paesaggi silenziosi.
Sofia Podestà è nata a Roma nel 1991. Si è laureata in Storia dell’Arte all’Università di Roma Tre, con una tesi sui lavori di Luigi Ghirri, Guido Guidi e Vittore Fossati. Nel 2018 è stata selezionata per partecipare alla Summer School della SISF (Società Italiana per lo Studio della Fotografia) e al corso di Alta Formazione del museo MAXXI di Roma. Nel 2019 ha ricevuto il premio Giovani Creativi per essere considerata una dei dodici migliori creativi italiani under 30, partecipando in una mostra successiva a Palazzo Massimo di Roma. Nel 2021 espone a Parigi per ImageNation Paris all’interno di Paris Photo Off e al contempo, viene scelta dall’Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione per svolgere una campagna fotografica volta alla valorizzazione di Basilicata, Calabria e Puglia.
Viaggiando molto, Podestà è attratta da luoghi remoti e isolati apparentemente non toccati dall’umanità. L’enfasi su paesaggi drammatici e scenici con colori sorprendenti trasforma le sue potenti immagini in portali su un altro mondo, creando momenti di intensa contemplazione per il suo pubblico. Di recente, tuttavia, Podestà ha iniziato a esplorare un lato più “intimo” della fotografia di paesaggio, rinunciando ad orizzonti e skyline e utilizzando invece luce, illusione e geometria per aggiungere un elemento meditativo alle immagini in primo piano, ognuna delle quali diventa un delicato simbolo di un potere più potente appena fuori dall’inquadratura.
Questa mostra è stata appositamente scelta per celebrare il nuovo spazio della galleria in Via Giulia 13 e il suo cambio di nome, passando da RvB Arts a Von Buren Contemporary, in quanto fa parte della missione fondamentale della galleria di scovare e promuovere giovani, promettenti artisti.
Testo di Mia Ceran
La prima volta che mi sono imbattuta nel lavoro di Sofia Podestà ho avuto la sensazione che io e lei ci conoscessimo. Di più: ho pensato che potremmo aver parlato per ore, condiviso racconti, scoperto gusti e passioni comuni; ma questa mia è solo l’infantile pretesa di qualsiasi membro del pubblico di avere un legame speciale con il lavoro dell’artista del cui lavoro si è infatuato, ma i percorsi e talenti invece viaggiano lontani dalla nostra storia e dalla nostra formazione, per poi incontrarsi un giorno, magari in una galleria.
Ho visitato l’Islanda ormai diversi anni fa, un viaggio struggente in un luogo che ancora oggi porto dentro con una nostalgia perpetua (l’Islanda sembra un altro pianeta, non un altro paese). Quando per la prima volta ho incontrato il lavoro di Sofia sono stata travolta dalla potenza delle sue immagini; il suo occhio aveva conservato integra la forza di quei paesaggi che colgono il visitatore di sorpresa; di fronte ai suoi scatti mi sentivo nuovamente piccolissima, sgomenta e inondata dalla potenza della natura che si manifesta con tale vastità da sembrare che si sia dimenticata dell’Uomo. Non mi è ben chiaro come – ma immagino sia il segreto dell’artista – sia stata capace di raccogliere tutto ciò con il suo obiettivo, ma Sofia ci è riuscita. E ancora una volta, osservando le sue fotografie Il bosco del’imperatore e Fine estate ho rivissuto sensazioni che mi sembrava di aver provato, e non mi è più chiaro se quello dove mi sembra di essere già stata sia un luogo fisico o quello emotivo, perché Sofia li ha catturati entrambi.
Scriveva Dino Buzzati nel suo romanzo Un amore, raccontando del protagonista, lanciato in una folle corsa in macchina verso la sua amata:
“Allora egli all’improvviso capì il senso di quel naturale incantesimo. Che cosa infatti volevano dirgli i filari di pioppi all’orizzonte che vanno in corteo e sembrano sfuggirlo e nello stesso tempo corrergli incontro, per poi allontanarsi alle sue spalle, nella nebbia, consumati, mentre nuove schiere appaiono dinanzi inesauribili precipitandosi su di lui? Di colpo egli capì ciò che dicevano, capì il significato del mondo visibile allorché esso ci fa restare stupefatti e diciamo “che bello” e qualcosa di grande entra nell’animo nostro. Tutta la vita era rimasto in ammirazione dinanzi a un paesaggio, a un monumento, a una piazza, a uno scorcio di strada, a un giardino, a un interno di chiesa, a una rupe, a un viottolo, a un deserto. Solo adesso, finalmente, si rendeva conto del segreto. Un segreto molto semplice: l’amore. Tutto ciò che ci affascio a del mondo inanimato, i boschi, le pianure, i fiumi, le montagne, i mari, le valli, le steppe, di più, di più, le città, i palazzi, le pietre, di più, il cielo, i tramonti, le tempeste, di più, la neve, di più, la notte, le stelle, il venti, tutte queste cose, di per sé vuote e indifferenti, si caricano di significato umano perché, senza che noi lo sospettiamo, contengono un presentimento d’amore”.
Quale sia la ricerca di Sofia, cosa attragga il suo occhio di fronte alla pietra dura della Marmolada o lungo una vecchia pista di bob sulla quale si adagia la natura in assenza dell’uomo, resta un mistero. Ma nel suo lavoro ho amato anche qualcosa che mi ha ricordato Luigi Ghirri: gli oggetti inanimati che sembrano sostituirsi ai protagonisti umani, i mari d’inverno, le architetture in cui il colore e le forme hanno creato un sodalizio speciale ma soprattutto quelle fotografie in cui la nebbia e la foschia sembrano creare quello spazio in cui viene meno la nostra capacità di leggere con chiarezza le cose e gli eventi. Ed è proprio in questa incertezza e in questa sospensione che Sofia è in grado di immortalare il nostro senso di smarrimento e forse, per qualcuno, un presentimento di amore.
Mia Ceran
Kairos
Il lavoro di Sofia Podestà (Roma, 1991), indaga principalmente la relazione dell’uomo con il paesaggio: spesso si concentra su scenari grandiosi, dove la natura regna in tutta la sua maestosità, come ad esempio nelle serie Enrosadira ed Emotional Landscapes. Con Kairos, invece, il registro cambia: si tratta di una dimensione più delicata, quasi intimista, seppure le immagini appartengano a lavori precedenti, da cui sono state estrapolate. Ed è proprio nel lavoro di rilettura del proprio archivio che nasce questa nuova sequenza, che inanella 12 immagini, scattate tra 2016 e 2021, che spaziano tra la Marmolada e Cortina, tra l’Islanda, il Terminillo, e Monte Livata.
L’occasione è data dalla pandemia in corso e dalle misure di confinamento messe in atto per arginare la diffusione del virus: nell’impossibilità di recarsi, fisicamente, nei suoi luoghi prediletti, la fotografa rivisita quanto prodotto fino a quel momento, ma con un nuovo filtro: ed è così che scatti inizialmente accantonati acquistano un nuovo sapore e un nuovo significato, sotto una prospettiva diversa.
Alberi spogli, come intirizziti dal ghiaccio, boschi scuri e intricati, ricoperti da un manto di foglie cadute e dalla neve, coltri di foschia che accarezzano le rocce e celano le cime degli abeti, in un gioco a nascondino dove siamo lasciati a chiederci se la nebbia si stia alzando o stia calando, e a cercare di rispondere alla domanda di dove vada il vento quando non soffia. Podestà ci mostra una geografia delle piccole cose, dove la semplicità di un ramo caduto, in bilico su uno specchio d’acqua, si accompagna ad un accenno malinconico. Qui e là si intravedono sparute tracce della presenza umana, che la natura lentamente ricopre e cela: è solo una questione di tempo, è l’ordine del cosmo, che procede incurante degli affari umani.
In questo scorrere incessante, la fotografia si inserisce cercando di sottrarre attimi al tempo cronologico, in nome di una necessità: quella di registrare un momento più o meno decisivo. Questo lavoro di Podestà si inserisce nel punto di contrasto tra l’eternità della natura e l’urgenza di cercare di catturare una parte, seppur minima, della sua essenza: sono frammenti di paesaggio, ma anche gli spazi del sé. Alla luce di questo e della genesi stessa di questa selezione, appare evidente come la nostalgia che aleggia in questi scatti assuma un tono ancora più carico: in pieno lockdown, questi paesaggi sono i luoghi familiari di cui si sente la mancanza e dove non si vede l’ora di tornare, come se fossero un caro amico.
Le immagini assumono quindi un connotato meditativo, oltre che sulla condizione umana, anche sulla natura stessa dell’archivio e del suo uso nell’ambito fotografico: non si tratta di un organismo sterile che semplicemente raduna quanto è stato visto, scattato, sequenziato, mostrato, scartato, bensì di una raccolta viva, che necessita di un continuo lavoro di ri-interpretazione e revisione. Nella calma imposta da forze maggiori, come in un bosco avvolto da un fitto manto di nebbia, Podestà ritorna sui suoi passi per trovare nuovi percorsi incentrati su contrasti soffusi, nati dall’accostamento di immagini originariamente concepite per ambiti diversi, e ci mostra piccole schegge di paesaggi silenziosi.
Luisa Grigoletto